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La Rua a Vicenza: Storia di una festa popolare

In cinquecento anni di vita, la fiabesca torre lignea vicentina ha seguito - e vissuto direttamente sulla propria immagine - l'intero procedere delle vicende storiche, politiche e di costume della città.

In cinquecento anni di vita, la fiabesca torre lignea vicentina ha seguito - e vissuto direttamente sulla propria immagine - l'intero procedere delle vicende storiche, politiche e di costume della città.

Nata come emblema d'un Collegio professionale e per una processione religiosa, passò col volgere di pochi decenni ad assumere il valore di simbolo popolare per l'intera comunità berica. Una questione, in altri termini, di campanile... mobile, trasportato lungo un percorso divenuto quasi subito canonico: da Piazza dei Signori per Muschieria, il Vescovado e la Porta Castello, poi seguendo il Corso fino alla svolta di Santa Barbara, col ritorno finale a fianco della Basilica.

Parte della più colorita tradizione locale, specie ottocentesca, voleva che l'origine della Rua risalisse al ricordo d'una battaglia vinta dai Vicentini sui Padovani nel '200. In particolare, alla conquista d'una ruota del Carroccio avversario.

Vero invece è che la Rua nacque presso i ‘Nodari’ quando questi decisero, nel 1441, di creare qualcosa di ben più imponente del cero che seguiva, assieme all'insegna della categoria (ed a quelle degli ordini, delle fraglie, arti e corporazioni cittadine) la processione del Corpus Domini, solennizzata dal Comune sin dal 1389.

Ma perché, poi, al centro del simulacro doveva stare una ruota?

Occorre ricordare che i ‘Nodari’ si dividevano in Modulanti e Vacanti: i primi, trecento in tutto e ripartiti in cinque sezioni, si succedevano a turno negli incarichi. Era stato tale periodico “giro” a richiamare il movimento della ruota, ed a far nascere il relativo stemma professionale. Concretizzatosi appunto, nella struttura del nuovo “tabernacolo”, in una sorta di piccola giostra girevole nel senso verticale, dotata di scanni su cui far salire alcuni bambini.

Sembra assodato che la prima uscita della Rua in tal foggia sia avvenuta nel 1444, ed abbia subito goduto del favore generale. Tanto che, di lì a poco, ogni avvenimento importante per Vicenza, non più soltanto dunque il Corpus Domini, divenne occasione perché la gran mole (anno dopo anno arricchita sempre più di “figuranti” vivi o in cartapesta, di stoffe variopinte, di pennacchi e nuovi accorgimenti per aumentarne l’altezza) venisse messa in ordine e fatta uscire dal magazzino, quando addirittura non ricostruita ex-novo. Era il Comune stesso a richiederla ai Nodari. Per i quali giunsero, pressoché subito, le difficoltà finanziarie: nel 1483 ad esempio, la spesa per il restauro della “macchina” si preannunciava tale che si decise di non farla nemmeno apparire.

Cent'anni dopo, quando il problema tornò a ripresentarsi con maggior evidenza, venne interessata l'amministrazione cittadina; la cosa finì in consiglio comunale, dove si passò alla determinazione di “municipalizzare” il simulacro, stanziando una somma di cinquanta ducati. A tale provvedimento pare accertato si giungesse soprattutto per l'interessamento di Pietro Paolo Bissari: ecco perché dal 1585, anno della definitiva pubblicizzazione, ebbe origine anche il saluto Viva la Rua dì casa Bissara!

La trasformazione in una accezione più “laica” dell'iniziativa procedette comunque ancora: dal 1616, la torre iniziò a girare solo al termine della processione. Questo perché le autorità ecclesiastiche non sembravano più disposte ad accettare di buon grado che la folla nel giorno fatidico attendesse con più ansia il transito della Rua che non quello del Santissimo. Oppure la corsa equestre del Palio, che si teneva nella medesima data.

Col passare del tempo, le dimensioni della mole continuarono a farsi sempre più imponenti, fino ad oltre 24 metri d'altezza e con un peso di ottanta quintali. Cosicché aumentò gradualmente anche il numero dei facchini via via “precettati” per trascinarla: si giunse ad impiegare ottanta persone. E rimane decisamente curioso il fatto che, anche ai tempi del massimo ingombro, alla Rua non siano state applicate delle... ruote per facilitarne il trasporto che ebbe sempre luogo, invece, tirandola e spingendola sul selciato, appositamente bagnato in precedenza onde evitare scintille e diminuire l'attrito.

Crebbe col tempo anche il corteo d'accompagnamento formato da musici, cavalieri ed armigeri in costume, mentre sulla sommità venne posto un giovane in carne ed ossa cui spettava, per una giornata di autentico... mal di mare, una ricompensa formata da una borsa di danaro e da una ciambella, al momento della fermata davanti a casa Bissari dopo l'imbocco del Corso.

Assieme alla folla cittadina e “foresta”, andò sempre aumentando anche l'interesse per la Rua come fenomeno sociale, come passaporto collettivo ad una giornata di autentici bagordi, e si infittì pertanto anche il numero degli inviati dei giornali italiani. Proprio perché ogni “uscita” (dal tradizionale giugno si passò, nel 1880, ad una collocazione inserita tra le manifestazioni del settembre vicentino), scatenando tutta una serie di festeggiamenti popolari, poteva fornire interessanti spunti folkloristici.

Ovvio che un simbolo di tale presa venisse caricato anche di significati politici: durante la loro occupazione, i Francesi al posto dell'originario Leone di San Marco appiccicarono sulla Rua il caratteristico Gallo d'Oltralpe, con in più il cartiglio Libertà ed Eguaglianza.

Gli Austriaci vi imposero invece l'aquila bicipite degli Asburgo mentre, dopo l'Unità, essa divenne tutta... tricolore ed arricchita con gli scudi di casa Savoia.

L'ultimo percorso “normale” venne effettuato nel 1901: undici anni dopo, infatti, essa venne trascinata soltanto in Piazza, dal momento che le vie del suo “giro” erano già occupate dai fili dell'illuminazione elettrica e del tramvai.

L'apparizione di addio risale al 1928, con l'accompagnamento dei labari fascisti. Poi, dopo lo smontaggio, per lo scheletro di legno iniziò una lunga serie di peregrinazioni in vari ripostigli comunali fino alla distruzione degli ultimi resti, al “lazzaretto” in Gogna, durante i bombardamenti.

Antonio Stefani (1983)