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Storia



Vicenza: Riflessioni storiche



Vicenza Città e capoluogo di provincia del Veneto, situata nella Pianura Padano-veneta fra le prime pendici dei monti Berici (a sud) e delle Prealpi (a ovest), è attraversata dal tortuoso fiume Bacchiglione e dal suo affluente Retrone.
Insediamento paleoveneto, "Vicetia" ebbe cittadinanza romana nel 49 a.C. Occupata successivamente dagli eruli e poi dagli ostrogoti (489), nel 569 divenne ducato longobardo, quindi fu retta da conti franchi, e vide sorgere nei dintorni notevoli sedi benedettine (impegnate, fra l'altro, nella bonifica del territorio). Devastata dagli ungari nell'899, fu governata a partire dall'anno Mille da vescovi-conti, quindi nel XII secolo si costituì in libero comune e fu tra le città fondatrici della Lega veronese (1164) e della Lega lombarda (1164-1167). Travagliata da lotte interne, nel XIII secolo cadde tuttavia in signoria di Ezzelino III da Romano, quindi sotto il dominio dei padovani e, nel Trecento, degli Scaligeri veronesi e dei Visconti di Milano finché, nel 1404, si consegnò alla Repubblica di Venezia, condividendone da allora le sorti politiche.

In Vicenza è chiaramente ravvisabile il piccolo centro storico di origini antiche e medievali, circondato da "contrà" che ricordano nel nome (ad esempio, "pedemuro San Biagio") la cinta duecentesca, e affiancato dai vasti ampliamenti scaligeri e veneziani, le cui mura (a tratti sostituite dai corsi d'acqua) sono in limitata parte conservate entro i viali di circonvallazione.
Intorno, l'abitato moderno si espande radialmente fino a raddoppiare la superficie cittadina. La città storica conserva parte degli edifici medievali e i monumenti rinascimentali del periodo veneziano (dopo il gotico tardo della prima metà del Quattrocento), la cui costruzione corrispose a un'età di fortune economiche dell'aristocrazia terriera.
Dal 1537, infine, con l'inizio dell'attività architettonica di Andrea Palladio, padovano, il Rinascimento maturo donò alla città (e, con le ville, al suo territorio), gli edifici più notevoli.
Fra i monumenti del Medioevo sono da citare: la basilica dei Santi Felice e Fortunato (del X-XII secolo), oltre le cerchie murarie, presso un monastero benedettino; le chiese di Santa Corona, domenicana, gotica del XIII secolo, con tele di Giovanni Bellini e di Paolo Veronese, e la coeva San Lorenzo, francescana; il Duomo, gotico del XIII-XVI secolo, con abside rinascimentale (nell'attiguo Palazzo vescovile, è rimarchevole la loggia Zeno, del 1485); e la casa Pigafetta, tardogotica su modello veneziano, dove nel 1480 nacque il navigatore.

Nel centro, fra le piazze dei Signori, delle Biade, delle Erbe e la piazzetta Palladio, sorge l'opera maggiore del Palladio a Vicenza, la Basilica (1549-1617), il cui nome significava "luogo dove si amministra la giustizia"; essa chiude su tre lati il preesistente palazzo della Ragione, fasciandolo con una magnifica doppia fuga di portici e loggiati (sull'angolo nord svetta inoltre la torre di Piazza, alta ben 82 metri ma con solo 7 metri di base, del XII-XV secolo); sulla piazza delle Erbe s'affaccia anche la loggia del Capitaniato (1572), del Palladio, a "ordine gigante".
Dello stesso artista sono anche: il palazzo Chiericati, del 1551, il cui fronte si apre in profondi colonnati, sede del Museo civico, con la Pinacoteca ricca di opere di artisti veneti fino al XVIII secolo (tra questi, Paolo Veronese, Jacopo Bassano, Giovanni Battista Tiepolo, Giovanni Battista Piazzetta); il Teatro Olimpico, in legno, che si ispira ai teatri greci e romani, con scena ornata da statue; il palazzo Barbaran-Porto (del 1571), sulla contrà Porti, ove s'affacciano anche pregevoli palazzi tardogotici.

Un'altra preziosa via centrale è il corso Palladio, ove sorge il palazzo Dal Toso-Franceschini-Da Schio detto "Ca' d'oro", terminato nel 1477, notevole esempio di gotico-veneziano, e il bel palazzo Trissino-Baston, eretto nel 1592 dal vicentino Vincenzo Scamozzi. Sulle prime ondulazioni dei monti Berici, a sud, si elevano invece la basilica di Monte Berico (costruita fra il 1687 e il 1703), che custodisce un grande dipinto del Veronese; la villa Valmarana, detta dei Nani per le statue disposte intorno al giardino, con i celebri affreschi di Giovanni Battista e Gian Domenico Tiepolo (1757); e la Rotonda (villa Almerico-Capra, 1567-1569), l'opera più famosa del Palladio, a pianta centrale, con quattro pronai ionici uguali e cupola.

La città è il principale mercato per i prodotti del circostante territorio agricolo e un importante centro industriale, attivo nei settori metalmeccanico, chimico, farmaceutico, tessile, dell'abbigliamento, grafico-editoriale, della carta, della pelletteria, della ceramica e dell'oreficeria. La provincia, che comprende 121 comuni ed è per circa un terzo pianeggiante e per il resto montuosa o collinare, è dedita all'agricoltura (cereali, viti, frutta, ortaggi), all'industria, con stabilimenti alimentari, tessili (particolarmente nota è la manifattura della lana), metalmeccanici e allo sfruttamento delle locali cave di marmo a Chiampo e di pietra tenera a Vicenza. Importante è anche il turismo, nei centri d'arte e nelle stazioni climatiche e sciistiche prealpine, in particolare dell'altopiano di Asiago.


Risorgimento


Risorgimento Concetto storiografico che indica la genesi e lo sviluppo del processo di unificazione realizzato con la nascita dello stato nazionale in Italia. Il termine cominciò ad affermarsi alla fine del XIX secolo, quando gli storici si interrogarono sulle radici dello stato unitario e sulle modalità della sua costruzione.
Si affacciarono allora alcune tendenze interpretative che si sarebbero confrontate nei decenni successivi. Una corrente legata ai principi del nazionalismo insisteva sulla matrice autoctona del Risorgimento italiano, considerato un autonomo sviluppo di idee e di precondizioni che risalivano al XVIII secolo. Una versione filosabauda scorgeva infatti nell'espansione territoriale del Regno di Sardegna, avviata nella prima metà del XVIII secolo, le origini del Risorgimento, che veniva così accreditato a un fattore dinastico e tutt'al più statalistico. Al contrario, la tradizione democratica e repubblicana metteva l'accento sull'importanza della Rivoluzione francese e dell'età napoleonica, scorgendo in esse il laboratorio politico di quelle idee di libertà, di indipendenza, di organizzazione liberale del potere che avrebbero animato gli uomini e i movimenti più impegnati a favore dell'Italia unita.
Nel secondo dopoguerra la lettura marxista del Risorgimento si orientò a cogliere i limiti sociali della costruzione unitaria, identificandoli nella mancata rivoluzione agraria, nella passività delle masse contadine e nella scarsa diffusione dell'ideale unitario, limitato a ristretti nuclei di notabilato locale.
In tempi recenti è tornata sotto nuova veste la questione inerente il rapporto tra l'idea di nazione e lo stato, come nodo fondamentale per comprendere potenzialità e carenze della storia d'Italia. Nella critica storiografica è riaffiorata la contraddizione tra un'idea culturale dell'Italia, che ha origini antiche, e il ritardo con cui si forma lo stato italiano, che per di più vede la luce grazie a iniziative elitarie e legate al quadro internazionale, nascendo così privo di un forte radicamento nella coscienza degli italiani. La storia
È possibile ripercorrere le vicende del Risorgimento, muovendo dai moti napoletani e piemontesi del 1820-21 (Vedi Moti del 1820-21) e da quelli scoppiati a Modena e nelle Legazioni pontificie nel 1831 (Vedi Moti del 1830): furono esperienze politiche di raccordo tra il passato napoleonico e massonico, a cui i rivoluzionari di quel decennio attinsero progetti d'azione e forme organizzative, e il futuro, al quale consegnavano l'esigenza di istituzioni liberali, svincolate dall'assolutismo e fondate sulle costituzioni.
Negli anni Trenta Giuseppe Mazzini fu il più tenace e convinto assertore della necessità dell'unificazione politica, da lui concepita come atto volontario, di uomini che sceglievano liberamente un destino comune nell'orizzonte della democrazia e della repubblica. Chi aderiva alla mazziniana Giovine Italia, un'organizzazione sorta nel 1831, sapeva di dover lottare per l'indipendenza nazionale: e fu questo il primo passo verso l'unità.
Tale obiettivo non era condiviso dalla corrente moderata e monarchica, che si batteva per l'indipendenza dell'Italia, ma non per la sua unione politica, considerata un progetto irrealizzabile. Eppure tutti i rappresentanti del moderatismo ebbero una parte di rilievo nel formare la classe politica risorgimentale, che dopo il 1861 avrebbe governato l'Italia almeno fino alla fine del secolo.

Le rivoluzioni del 1848-49 introdussero un fattore nuovo, che venne sperimentato nel vivo delle insurrezioni antiaustriache e nel fuoco della prima guerra d'Indipendenza (1848-49), consistente in un legame, esile e carico di equivoci, ma pur sempre operante, tra l'iniziativa dinastica dell'esercito sardo e l'azione volontaria dei patrioti, la maggior parte di formazione mazziniana. La Repubblica romana (1849) che Mazzini e Garibaldi difesero come una libera istituzione italiana, rimase il punto politicamente più alto raggiunto dai democratici nel corso di tutto il Risorgimento.
Dopo la sua sconfitta fu il regno sabaudo a proporsi come centro di aggregazione delle istanze nazionali, qui vissute come aspetti di diplomazia internazionale. La strategia di Cavour trovava la sua forza nel fatto che era l'unica in Italia ad associare le aspirazioni nazionali all'indipendenza della penisola con le tradizioni espansionistiche di uno stato. Il regno sardo aveva queste peculiarità e per di più poteva mettere in campo strutture e tradizioni diplomatiche e militari adeguate al compito.
Il passaggio decisivo nel processo di unificazione avvenne con gli accordi tra il Regno di Sardegna e la Francia di Napoleone III, frutto di una convergenza tra obiettivi ben distanti tra loro: il primo puntava a un ampliamento dei confini settentrionali e alla contemporanea estinzione dell'egemonia austriaca in Italia; il secondo coltivava il proposito di esercitare un rilevante peso internazionale e di accrescere il consenso all'interno portando nuove terre alla nazione francese (Savoia e Nizza). La guerra svelò le ambiguità dell'accordo: dopo i successi delle prime settimane, i francesi si ritirarono, lasciando l'alleato in una posizione delicata, in quanto alcune regioni della penisola avevano visto le popolazioni insorgere per chiedere l'annessione al Piemonte.
Tutto il quadro degli accordi tra Cavour e Napoleone III si stava alterando di fronte a un'imprevista accelerazione degli eventi, che assunsero una piega ancora più netta nell'estate del 1860. Fu quello il momento militare dei democratici, la cui azione si esaltò nell'impresa di Garibaldi conclusa con la liberazione del Sud dal dominio borbonico: sul piano politico l'impresa dei Mille cadde sotto il controllo di Cavour e del re di Sardegna, il quale invase lo Stato Pontificio per congiungersi con Garibaldi e vanificare il progetto di un attacco a Roma, temuto perché avrebbe scatenato la reazione internazionale.
Il 17 marzo 1861, con la proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d'Italia, si compiva la prima fase del Risorgimento: le successive tappe (terza guerra d'Indipendenza, 1866, e presa di Roma, 1870) aggiungeranno il Veneto e Roma; per le altre aree di cultura italiana, anche se non completamente, ossia il Trentino, l'Alto-Adige, il Friuli, sarà la prima guerra mondiale a concludere il processo di unificazione.


Risorgimento e società italiana


Lo Stato unitario italiano, sorta nel 1861 a conclusione del Risorgimento, fu il risultato di una rivoluzione "borghese ", definizione che - al di là della sua approssimazione - coglie a sufficenza la sostanza del mutamento sociale e politico verificatosi fra la fine del '700 e l'Unità.
Prima del 1789 le leve del comando erano infatti nelle mani dei sovrani assoluti e dei loro apparati di governo, al centro di un sistema di potere il cui il ruolo centrale era ancora tenuto da una aristocrazia che traeva ricchezza, legittimazione e prestigio sociale dalle cospique rendite garantite dal possesso delle terre migliori e più redditizie, lavorate con l'assidua fatica di milioni e milioni di famiglie contadine povere e prive di terra.
Nei decenni che seguono immediatamente l'Unità, invece, il ceto politico e il governo appare profondamente mutato, con evidente rafforzamento dell'influenza decisionale del personale di estrazione borghese: una modificazione collegata ai lenti cambiamenti del tessuto economico, nel quale alle tradizionali attività agricole si andavano gradatamente affiancando nuovi, più dinamici comparti produttivi manifatturieri e industriali, le accresciute, attività commerciali, le allargate iniziative finanziarie e bancarie.

Il Risorgimento giunse a conclusione entro il quadro del liberalismo moderato ispirato da Cavour che liquidò gli antichi regimi assoluti e creò il nuovo Stato unitario sotto la monarchia sabauda, "diplomatizzando" la rivoluzione. Nello svolgimento di questo processo i gruppi, dirigenti liberal-democrati evitarono tuttavia i bruschi sconvolgimento dell'assetto sociale e cercarono di contenere l'intervento in prima persona dei ceti popolari sulla scena politica. Il disegno strategico così portato a compimento fu insomma quello di costruire un saldo blocco sociale, imperniato da una parte sui gruppi di borghesia rafforzatisi sul terreno delle attività economiche di tipo capitalistico, soprattutto nella Italia settentrionale, e dall'altro sui settori della grandle proprietà fondiaria nobiliare disposti a realizzare un "compromesso" con la "rivoluzione" risorgimentale, purché questa non si spingesse al di là di ben determinati limiti e garantisse il quadro esistente della distribuzione della proprietà.

Lo Stato italiano uscito dal Risorgimento, popolato nel 1861 da 22 milioni di abitanti (26 includendo quelli nel Veneto e del Lazio, allora ancora fuori dai confini nazionali), perpetuava così quella profonda frattura fra il "paese legale" e il "paese reale " che si era delineata già nei decenni nelle lotte risorgimentali.
Il primo, il solo ad avere voce e presenza politiche, era formato da quella ristretta fascia di individui abbienti che, in virtù della loro ricchezza o "censo ", erano abilitati all'esercizio del voto politico e amministrativo, e quindi a eleggere la Camera dei deputati e le amministrazioni locali (poco più di 400.000 persone, il 7% dei maschi adulti). Il secondo era invece fatto dalla grande maggioranza dei lavoratori urbani e rurali, generalmente alle prese con i problemi dell'esistenza quotidiana, la povertà, l'indigenza e l'ignoranza. E destò grande impressione nell'opinione pubblica colta apprendere all'indomani dell'Unità che l'80% della popolazione era analfabeta (con punte ancora più elevate nelle regioni del Mezzogiorno).
La divisione di fondo che durante tutto il Risorgimento e nei decenni che lo seguirono attraversava tutta l'Italia era quella tra città e campagna, perché ancora al momento dell'Unità il paese era fatto per il 70% di contadini. E profondamente diverso fu anche il comportamento "politico " dei popolani delle città e dei contadini nel corso del processo risorgimentale. Tra il 1820 e il 1860 tra gli artigiani e i lavoratori manuali dei centri urbani - specie del nord e del centro - si sviluppò in strati più o meno ampi un embrionale sentimento nazionale, che alimentò l'insofferenza per la dominazione straniera testimoniata nel corso del 1848-49 da tutta una serie di episodi che ebbero a protagonista le "plebi" cittadine: dall'insurrezione di Palermo del gennaio 1848 alle Cinque giornate milanesi, dalle Dieci giornate di Brescia alla difesa di Bologna, Roma e Livorno.

Ma al Risorgimento restarono invece ostili, con atteggiamenti che andarono dall'indifferenza passiva all'aperta ostilità, i contadini. E questo distacco delle masse rurali dalla causa nazionale ha cause complesse che affondano le radici nella storia secolare del paese: la subalternità della campagna rispetto alla città, la funzione di conservazione sociale svolta dalla Chiesa e dal clero nei contadi, la tradizionale diffidenza del contadino verso le novità. Ma, sul piano più immediatamente politico, la ragione di fondo del fenomeno sta nell'incapacità del movimento democratico - che faceva capo a Mazzini - di scorgere la centralità che nell'Italia del tempo rivestiva la questione della terra; il che impedì di elaborare programmi capaci di scuotere le popolazioni dei contadi dalla loro inerzia a volte venata di ribellismo (come avvenne nel 1848 nell'Italia settentrionale, quando in centinaia di comuni i contadini si mossero in forme spontanee in quella che fu la prima edizione dell'assalto al latifondo), facendo appello a quel "desiderio di migliorare" che, come rilevò Carlo Pisacane, fermentava più o meno consapevolmente nel loro seno e prospettando una trasformazione degli equilibri sociali tale da ridurre gli squilibri e le ingiustizie sociali radicati nel paese.

Questa estraneità del mondo delle campagne dal Risorgimento colpì profondamente - tra gli altri - Garibaldi, il quale rilevò più volti, con amarezza, di non avere mai avuto dei contadini tra le decine di migliaia di volontari che combatterono ai suoi ordini, e tra i quali invece assai numerosi si contarono gli artigiani, gli operai e i lavoratori urbani. E il problema del rapporto fra contadini e Risorgimento fu anche al centro della lucida riflessione tracciata da Ippolito Nievo nel 1860 sulla "rivoluzione nazionale".
L'autore delle Confessioni di un italiano, che aveva una profonda conoscenza del mondo rurale, si soffermava infatti in questi termini sull'esistenza nel corpo sociale della "nazione" del profondo distacco fra città e campagna, fra la "gente letterata" dei centri urbani e il "volgo campagnolo": "- Sì, il popolo illetterato delle campagne abborre da noi, popolo addottrinato delle città italiane, perché la nostra storia gli vietò quell'aspetto economico che risponde presso molte altre nazioni ai suoi più stretti bisogni. Esso diffida di noi perché ci vede solo vestiti coll'autorità del padrone, armati di diritti eccedenti, irragionevoli... Non crede a noi perché avvezzo ad udire dalle nostre bocche accuse di malizia, di rapacia che la sua coscienza va essere false ed ingiuste ... Vergogna per la nazione più esclusivamente agricola di tutta Europa ch'ella abbia formulato contro la parte più vitale di se stessa il codice più ingiusto, la satira più violenta che si possa immaginare dal malvagio talento d'un nemico -".



Rivoluzioni del 1848


Rivoluzioni del 1848 Ciclo storico segnato da insurrezioni, rivolte e rivoluzioni di straordinaria intensità che coinvolsero pressoché simultaneamente l'intera Europa, con l'esclusione della Gran Bretagna e della Russia. All'origine vi fu la crisi economica che aveva colpito l'Europa a partire dal 1845, ma le ragioni di fondo vanno individuate nell'intreccio tra problemi sociali, sollevati dalle organizzazioni operaie, e problemi politici, scaturiti dalle aspirazioni alla libertà e all'indipendenza.

In Italia si ebbero le prime insurrezioni popolari a Palermo (12 gennaio) e pochi giorni dopo a Napoli; la protesta convinse il re a promettere la Costituzione. Richieste analoghe trovarono ascolto in Piemonte, in Toscana e nello Stato della Chiesa: i sovrani si affrettarono a concedere le costituzioni e a convocare le elezioni per il parlamento. Tra febbraio e marzo la rivoluzione si estese alla Francia con l'insurrezione antimonarchica del popolo di Parigi (22 febbraio), che ottenne l'abdicazione di Luigi Filippo e la rinascita della repubblica. Il governo repubblicano adottò misure di contenuto democratico e sociale: suffragio universale maschile, libertà di stampa, riduzione a dieci ore della giornata lavorativa, creazione degli Ateliers nationaux (fabbriche nazionali), voluti dai socialisti per combattere la disoccupazione.
Nel giugno una nuova insurrezione popolare, questa volta espressione della lotta di classe, fu repressa con la forza dal governo repubblicano moderato.

Nella primavera, a Vienna e a Berlino analoghe proteste popolari costrinsero i sovrani ad accettare la Costituzione e la nomina di governi liberali. Sulla spinta dei fatti viennesi scoppiarono rivolte nazionali nei territori dell'impero: insorsero gli ungheresi, i boemi, i croati, gli italiani del regno lombardo-veneto, tutti chiedendo l'indipendenza da Vienna. In Italia la questione nazionale e le rivendicazioni all'indipendenza animarono la sollevazione di Milano, guidata da Carlo Cattaneo (le Cinque giornate dal 18 al 22 marzo), prodromo della prima guerra d'Indipendenza.

La reazione dei ceti conservatori non si fece attendere: la cosiddetta "primavera dei popoli" sfiorì ben presto, a partire dall'impero austriaco, dove l'imperatore Francesco Giuseppe cominciò a contrastare le richieste dei liberali, incarcerando gli uomini che si erano battuti per la Costituzione. Nel giugno del 1848 ordinò che Praga, capitale della Boemia insorta, fosse ripresa dall'esercito. Più arduo si rivelò sconfiggere la resistenza ungherese, perché i patrioti guidati da Kossuth tennero testa agli austriaci, appoggiati dai russi, fino all'agosto 1849.
Anche in Prussia il re poté riacquistare l'assoluto controllo dei suoi territori sciogliendo il parlamento che si era riunito a Francoforte. Solo in Italia i moti rivoluzionari ripresero nuovo slancio tra la fine del 1848 e l'estate del 1849: in Toscana si formò un governo popolare; a Venezia e a Roma fu proclamata la repubblica.
Ma il quadro europeo non favoriva il successo dei democratici, tanto più che la seconda sconfitta subita dall'esercito sardo per mano degli austriaci (battaglia di Novara, 1849) apriva la strada alla restaurazione.
A Roma, nel luglio, dopo l'attacco delle truppe francesi inviate da Luigi Napoleone (il futuro Napoleone III) su richiesta del papa Pio IX, i volontari repubblicani comandati da Garibaldi si arresero. A Venezia, assediata dagli austriaci, il capo dell'insurrezione, Daniele Manin, accettò la capitolazione il 23 agosto 1849.