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CULTURA VICENTINA

Da "Il Giornale di Vicenza" il 20-10-1998 di Mauro Passarin
Il centocinquantesimo anniversario dei moti del 1848 viene ricordato a Vicenza con una serie di manifestazioni coordinate dall'Amministrazione comunale, che vedono coinvolti importanti istituzioni culturali della città. Il comitato provinciale di Vicenza dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, la Biblioteca Bertoliana e il Museo del Risorgimento e della Resistenza di Villa Guiccioli, depositari di conoscenze e memorie tangibili, hanno voluto ricostruire, anche con una mostra documentaria, quello che fu uno dei più alti e nobili momenti della pur millenaria storia della città.
Alle vicende vicentine del 1848, - a partire dalla prima insurrezione contro gli austriaci e conseguente istituzione di un governo cittadino, che rispecchiasse la nuova situazione politica e provvedesse ad assicurare la tranquillità e l'ordine, via via fino alle disposizioni per la difesa e ai vari combattimenti svoltisi dall'8 aprile a Sorio e Montebello, passando per le giornate del maggio successivo, fino al più vasto e conclusivo avvenimento del 10 giugno - non sono certamente mancate la letteratura, gli studi e le ricerche. Ma quel luminoso periodo di storia vicentina che va dal 17 marzo all'11 giugno 1848 può e deve ancor oggi essere oggetto di un esame approfondito e di un'ampia valutazione poiché i fatti e i singoli episodi che in esso si inseriscono non sono tutta la storia e non l'esauriscono nei suoi molteplici aspetti.
Su questa strada ci si è posti allorquando con un interessante e impegnativo lavoro preparatorio di laboratorio e di scavo archivistico si è tentato di ricostruire una sorta di grande affresco spettacolare e didattico di quegli avvenimenti, nel rispetto della storia (degli eventi e delle loro successioni, dei protagonisti e dei contesti) e di sollecitazioni evocative (immagini, riflessioni, storiografi, iconografia.
E d'obbligo dichiarare che questo nostro "affresco" non può e non vuole essere un'enciclopedia o un'esaustiva esposizione di tutto quello che è accaduto a Vicenza in quel fatidico e tumultuoso "Quarantotto"; ma i materiali proposti, la loro originalità e novità, ci invitano a conoscere con evocazioni, letture, riflessioni e interrogativi un momento storico di straordinaria suggestione, sicuramente in modo più incisivo di qualunque narrazione attuale.
Nonostante l'estensione e una certa completezza, quindi, questa mostra documentaria è lontana dal ricordare compiutamente uomini, cose, fatti, momenti e luoghi; per questo ci sentiamo responsabili se altri esempi, altri numerosi e degni elementi non abbiano potuto entrare nel nostro quadro. Non è stato fisicamente possibile, se non dare brevi cenni di una storia lunga, varia e fitta di episodi. Molte altre immagini mancano, ma l'omissione non è oblio e la scelta di quanto pubblicato non è un giudizio né una preferenza.
Il tutto è stato volutamente proposto per permettere al pubblico la visione di preziose testimonianze dell'epopea risorgimentale finora inedite - perché sepolte nella enorme mole di documenti, oggetti e cimeli conservati negli archivi e nei magazzini del museo storico e della biblioteca della città - e non per rispolverare una piatta retorica nazional-patriottica d'altri tempi; indipendentemente quindi da nostalgie, da recriminazioni da posizioni di maniera o di convinzione, ma per contribuire alla salvaguardia di una memoria storica dalle radici profonde nella comunità vicentina.
Sulle ceneri della gloriosa millenaria storia della repubblica di S. Marco e dopo la breve, ma intensa stagione napoleonica del Regno d'Italia, dove dal 1805 il processo di francesizzazione delle province venete subì una rapida accelerazione con l'introduzione dell'ordinamento amministrativo d'oltralpe, i trattati del congresso di Vienna del 1815 sancirono il futuro destino del territorio vicentino, ora parte integrante del nuovo Regno denominato Lombardo Veneto.
Come il precedente Regno d'Italia era stato satellite dell'Impero francese, questa nuova costituzione statuale diventava soggetto riunito sotto la casa d'Asburgo. Il Lombardo-Veneto si distingueva nei due governi di Milano e di Venezia, retti ciascuno da un governatore. Il Vicere rappresentava l'imperatore e risiedeva a Milano. Ogni governo si divideva in province, ogni provincia in distretti e comuni. In ogni provincia una delegazione di nomina governativa sovraintendeva all'amministrazione. I cittadini erano rappresentati nel governo locale da due congregazioni centrali, una con sede a Milano, l'altra a Venezia.
Le congregazioni erano formate da nobili, proprietari e rappresentanti delle città, ed erano di nomina imperiale. Ogni provincia aveva poi la sua congregazione provinciale, di composizione analoga a quella delle congregazioni centrali. Ogni comune aveva un consiglio comunale o un convocato generale degli estimati. Questi collegi deliberavano sulla amministrazione straordinaria dei comuni, alla cui ordinaria amministrazione provvedeva una deputazione con attribuzioni analoghe a quelle delle odierne giunte municipali. Avevano il consiglio comunale le località di maggiore importanza con più di 300 estimati; nei comuni ove il numero degli estimati era inferiore a 300, l'amministrazione era affidata al convocato, specie di assemblea generale alla quale avevano diritto di intervenire tutti i censiti del comune, qualunque fosse la loro consistenza patrimoniale. Nonostante l'esistenza di questi organismi di governo locale, l'accentramento burocratico, caratteristico dell'impero asburgico, fu esteso al Lombardo-Veneto, così che il potere di decidere era saldamente tenuto dalle Cancellerie imperiali di Vienna.
Sul Lombardo-Veneto l'Austria vegliava perché nulla venisse a turbare il regime assoluto; quando sì scoprirono congiure patriottiche, l'autorità austriaca intervenne senza eccedere nelle repressioni, ma patiboli e carceri ebbero le loro vittime. Dal 1806 la provincia vicentina annessa al Regno d'Italia era stata denominata "Dipartimento del Bacchiglione", e i tradizionali confini del territorio venivano ampiamente modificati da tutta una serie di misure amministrative. Se da un lato il Vicentino perdeva il distretto di Lonigo, ceduto a Verona (Dipartimento dell'Adige), passavano a Vicenza il Distretto di Castelfranco (con i cantoni di Castelfranco e Noale) ed il cantone di Quero, cosicché quello del Bacchiglione, con 327.802 abitanti, diventava il dipartimento più grande e popoloso delle provincie venete "di nuova aggregazione".
Nel 1818, nell'ambito delle nuove riforme amministrative del regno Lombardo-Veneto, la Notificazione 17497/1883 dell'8 luglio di quell'anno, oltre a ridurre mediante aggregazione il numero dei comuni, modificava nuovamente i confini della provincia: Lonigo tornava a Vicenza, Castelfranco, Noale e Quero a loro volta venivano restituiti alla patria trevigiana, padovana e bellunese, mentre il distretto di Cittadella con i comuni di Fontaniva, Galliera, S. Martino di Lupari Padovano e Tombolo passava al Vicentino: in totale 292.803 abitanti su una superficie di poco più di 263 mila tornature per 131 comuni.
Subito dopo il 1850 (Sovrana Risoluzione 28-1-1853) una nuova riforma amministrativa staccava da Vicenza il cittadellese (Cittadella) al completo con in più i comuni, mai fino ad allora padovani, di Gazzo, San Pietro Ingù e Grantorto, mentre all'altra estremità della provincia il comune di San Giovanni Illarione veniva ceduto alla provincia di Verona "per dare unità amministrativa alla valle d'Alpone".
Attorno alla metà del secolo scorso la città di Vicenza contava 24.600 abitanti di cui 22.500 in città e 2.100 nei sobborghi.
La città di Vicenza, nel 1848, era suddivisa da un punto di vista amministrativo in un circondario interno entro la cinta muraria, che comprendeva le parrocchie del Duomo, San Marcello, Santo Stefano, Carmini, Servi, Santa Caterina, San Pietro, e due circondari esterni, I e II, rispettivamente nelle "colture" ad oriente ed occidente della città. La numerazione delle case, i "numeri civici" introdotti dai francesi nel 1797, partiva da Porta Castello con il numero 1 e dopo aver seguito tutte le strade urbane e toccate tutte le porte delle mura, ritornava a Porta Castello di fronte al nr. 1 con il numero 2412. Le "colture", cioè i circondari suburbani, avevano invece numerazione propria.
Il fallimento dei moti insurrezionali antiaustriaci del 1821 e 1831 e la spietata repressione, lungi dal decapitare il movimento liberale come era nei voti degli Asburgo, accelerarono la formazione di un'opinione pubblica elitaria. L'avventurismo che aveva caratterizzato l'azione di gruppi settari fu sostituito da una diversa coscienza degli obiettivi da raggiungere e del nemico da abbattere.
Il 1848 fece esplodere in Lombardia e nel Veneto la rivolta cui non mancavano consistenti motivazioni. La mancanza della libertà gravava particolarmente sulla borghesia intellettuale e professionale e sulla aristocrazia più illuminata. Isterilita la vita politica, tarpata ogni attività culturale men che conformista e ciò in stridente contrasto con le vicine nazioni d'oltralpe, dove il liberalismo si andava affermando sempre più nelle istituzioni e nel costume politico. Sulle classi popolari pesava anche la coscrizione militare, attivata non già per dare uomini ad un esercito locale ma per inquadrare i giovani lombardi e veneti nel plurinazionale esercito imperiale. Il regno Lombardo-Veneto, con una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, doveva fornire centomila uomini alle armate austriache, uomini che potevano servire soltanto in fanteria, essendo precluso alle reclute italiane il servizio in cavalleria, in artiglieria o nel genio. Si è calcolato che nei trent'anni dal 1815 al 1848, il Lombardo-Veneto abbia pagato due miliardi di lire del tempo per le sole spese militari. Su tutti gravava la pressione fiscale indiscriminata; gli scambi commerciali continuavano ad essere regolati dal più ferreo protezionismo con tariffe doganali che raggiungevano anche il 60 % del valore delle merci.
In concomitanza ed in conseguenza degli avvenimenti europei e della notizia della Rivoluzione scoppiata a Vienna nel marzo del 1848 insorsero le città di Milano, Venezia ed altre città del Lombardo-Veneto. Le Guarnigioni austriache si ritirarono velocemente nelle sicure fortezze del Quadrilatero. Il 17 e 18 marzo del '48 anche a Vicenza si ebbero le prime dimostrazioni patriottiche che ottennero come uno dei primi atti della nuova Municipalità, in ottemperanza peraltro alle concessioni imperiali di qualche giorno prima, la costituzione della Guardia Civica.
Fu questa l'istituzione tipica del Risorgimento che l'aveva mutuata dalla Rivoluzione francese. Era considerata l'organizzazione armata del popolo, contrapposta agli eserciti di mestiere ritenuti strumenti di oppressione. Per questo l'istituzione della Guardia Civica era sempre fermamente richiesta dai patrioti liberali. La Guardia Civica ebbe sempre una sua propria uniforme. Caratteristica delle Guardie Civiche del 1848 fu l'elmo crinito, adottato per primo dalla Guardia Civica romana in ricordo del copricapo dei legionari dell'antica Roma.
In città nel frattempo si era costituito un Comitato Provvisorio Dipartimentale presieduto dall'avv. Gianpaolo Bonollo e che annoverava tra i suoi membri importanti personaggi come: l'avv. Sebastiano Tecchio, Don Giuseppe Fogazzaro, il notaio Bartolomeo Verona, il commerciante Giovanni Toniato, il canonico Don Giovanni Rossi e il nobile Luigi Loschi. Si venivano nel frattempo costituendo formazioni di volontari, elemento caratteristico della guerra del 1848. Si ricordano in modo particolare le formazioni dei Crociati vicentini che proprio i primi giorni di aprile ebbero il loro sfortunato battesimo del fuoco nei pressi di Sorio e Montebello.
La città, difesa da poco più di 5.000 uomini fra volontari e regolari pontifici, fu investita il 20 maggio con un attacco alle difese di Porta Santa Lucia. Nonostante l'appoggio di sei cannoni gli assalitori non riuscirono a piegare i difensori che erano mirabilmente coadiuvati da un solo cannone servito con perizia dall'artigliere Antonio Piccoli, che fulminava da Porta San Bartolomeo gli austriaci tanto da costringerli a ritirarsi. Il giorno seguente un reparto uscito dalla città al comando del gen. Giacomo Antonini attaccava a Ponte Alto gli austriaci diretti a Verona, senza peraltro impedire loro di raggiungere la piazzaforte.
Vicenza fu di nuovo assalita il 23 maggio. A mezzanotte gli austriaci mossero su tre colonne con i seguenti obiettivi: Borgo S. Felice, la Rocchetta, Monte Berico. Gli scontri più aspri si ebbero a Borgo S. Felice, tenacemente difeso. Gli austriaci desistettero dall'attacco nella tarda mattinata del 24, ritirandosi verso Verona con gravi perdite. Questa seconda battaglia di Vicenza ebbe come protagoniste le opposte artiglierie; gli austriaci spararono oltre 6.000 proiettili mentre grande fu il merito degli artiglieri italiani nel fermare gli assalti del nemico.
L'attacco decisivo fu quello del 10 giugno. Trentamila soldati imperiali con 50 cannoni investirono la città. L'azione principale austriaca si sviluppò contro le posizioni di Monte Berico, vera chiave di volta nella difesa vicentina; posizione presidiata da forze regolari pontificie e da volontari. Azioni secondarie in pianura avevano compiti di sostegno dell'azione principale. I difensori della città erano in tutto circa 11.000 uomini con 38 cannoni; queste forze erano al comando del generale Giovanni Durando. Il sistema difensivo dei Colli Berici era ordinato su linee successive situate a Castel Rambaldo, al colle Bella Guardia, al colle Ambellicopoli e villa Guiccioli, in prossimità del Santuario.
Gli austriaci occuparono dapprima Castel Rambaldo poi presero, persero e ripresero la Bella Guardia anche se la lotta più accanita si svolse attorno al colle Ambellicopoli, la posizione più importante del sistema difensivo vicentino. Fu attaccato con forza e difeso con, grande valore, ma la grande sproporzione numerica a favore dell'attaccante lasciava pochi dubbi sull'esito del combattimento. Mentre il Santuario veniva difeso da pochi valorosi risoluti al sacrificio, il grosso dei difensori si ritirava ordinatamente, tentando anche un ultimo contrattacco che però non poteva cambiare le sorti della giornata.
Perduto il monte la città diventava indifendibile, anche per mancanza di riserve da gettare nella lotta. Furono pertanto avviate trattative di resa. Dopo lunghe e non sempre serene discussioni fra i plenipotenziari delle due parti, l'intesa venne raggiunta e firmata a Villa Balbi all'alba dell' 11 giugno 1848. I difensori sarebbero usciti dalla città con l'onore delle armi per ritirarsi sulla destra del Po, impegnati a non combattere contro l'Austria per tre mesi. Le perdite furono: austriaci 304 morti, 541 feriti, 140 dispersi; italiani 293 morti e 1.665 feriti.
La caduta di Vicenza, città di rilevante posizione strategica, ebbe conseguenze molto negative sullo svolgersi della guerra e diede luogo anche ad acri e lunghe polemiche. L'eroica resistenza della Città di fronte all'energica e risoluta azione delle truppe imperiali austriache, sotto l'alto comando del Feldmaresciallo Radetzky, si arrestò dunque solo innanzi alla superiorità dell'avversario.
Il sistema difensivo di Vicenza era ben disposto ed oltre al perimetrale cerchio di mura e torrioni che sovrastavano le principali porte d'ingresso dell'abitato, l'opera di fortificazione e barricamento si era susseguita tenacemente soprattutto dopo i tentativi degli imperiali di penetrare in città nelle giornate del 20-21 e 23 maggio. La guarnigione cittadina indirizzò ogni sforzo precipuamente alla sistemazione della difesa della zona collinare dei Berici in prossimità del Centro; un territorio strategicamente fondamentale per il controllo della città. Ed è proprio in questa direzione che sortiranno irrimediabilmente i destini di Vicenza nell'epopea risorgimentale.
Sui colli in direzione Arcugnano furono dunque erette varie opere a baluardo di sistemi di batterie posti nei punti nevralgici. Il generale Giovanni Durando, comandante delle milizie "indigene ed estere", posizionò sulla dorsale dei Berici due battaglioni di soldati svizzeri con otto pezzi di artiglieria, una legione romana comandata da Giuseppe Gallieno, il battaglione universitario del maggiore Luigi Ceccarini, il battaglione civico guidato dal maggiore Raffaele Pasi e alcuni volontari vicentini, tutti sotto il comando dei colonnelli Massimo D'Azeglio ed Enrico Cialdini. Dal Castel Rambaldo (oggi Villa Margherita), primo avamposto, sino alle barricate che cingevano il Santuario della Madonna, attraverso le posizioni dei Colli Bella Guardia ed Ambellicopoli di Villa Guiccioli, si articolava così il sistema di presidi a protezione di Vicenza.
Al piano, o per meglio dire, alla difesa del centro abitato, il colonnello Giacomo Zanellato, comandante la Guardia Nazionale di Vicenza, aveva la vigilanza di Porta Lupia, Campo Marzo e le pendici di Monte Berico sopra la città; al colonnello Domenico Belluzzi, comandante la piazza e la guarnigione coadiuvato dal maggiore marchese Stefanori e dal luogotenente conte Erminio, era affidata la cura di Porta e Borgo Castello, Campo del Gallo (zone ex Montecatini e Valbruna), Porta Santa Croce, Porta San Bortolo, Recinto Capra, Porta Santa Lucia e Borgo Scroffa. Il conte Alessandro Avogadro di Casanova, capo di stato maggiore, aveva la direzione di Porta e Borgo Padova, di Porta Monte e delle posizioni e del settore Valmarana e Rotonda. Complessivamente, corpi militari, Guardia Civica e milizie volontarie da ogni parte d'Italia, a formare un'eterogeneità militarmente poco preparata e soprattutto scarsamente equipaggiata, di quasi undicimila uomini, con solo alcune decine di pezzi di artiglieria.
Al ritorno degli austriaci, la città dovette ben presto regolare la propria vita in base ad una lunga serie di norme restrittive di carattere locale, provinciale e regionale, che ebbero un costo estremamente elevato sul piano militare, umano ed economico. Dopo il'48 la cospirazione antiaustriaca si affievolì progressivamente, molti patrioti erano esiliati, isolati i repubblicani, scarsa consistenza ebbe la penetrazione mazziniana; le classi dirigenti clerico-moderate, il clero, la burocrazia, le gerarchie ecclesiastiche, i notabili preparavano la trasformazione.
Negli ultimi anni della dominazione austriaca l'emigrazione liberal-democratica che faceva capo al Comitato Centrale Politico dell'emigrazione veneta a Torino, nel quale Vicenza era rappresentata da Sebastiano Tecchio, esercitò un'attiva propaganda a favore dell'unificazione. L'Armistizio di Villafranca del 1859 a conclusione della II Guerra d'Indipendenza, che sanciva la liberazione della sola Lombardia costringendo il Veneto a rimanere ancora sotto la dominazione austriaca, provocò la delusione dei patrioti italiani e veneti in particolare per l'inaspettato epilogo. Quando, diciotto anni dopo la strenua resistenza del'48, la terza dominazione austriaca venne spazzata via dalla III Guerra d'indipendenza, Vicenza contribuì con gli esiti del plebiscito popolare del 21 ottobre 1866 all'annessione del Veneto al Regno d'Italia.
La visita del Re a Vicenza il 17 novembre 1866, per il conferimento della Medaglia d'Oro al Valor Militare, un mese dopo l'annessione delle province venete al Regno d'Italia, rappresentò in realtà il suggello di una precedente proposta di Sebastiano Tecchio, esule e deputato nel Parlamento Subalpino a Torino, tesa fin dal 1849 a premiare i difensori di Vicenza del 10 giugno'48. La cerimonia ufficiale avvenne nella piazza dei Signori popolata di gente. Così scrive Sebastiano Rumor nelle sue memorie: "... Giunto al luogo destinato, ai piedi della Torre, il re lesse i nomi dei prodi caduti combattendo da forti... Dopo di ché il Podestà Costantini, ricevuta dalle mani dello Zanellato la bandiera, la presenta al Re Vittorio Emanuele, che la saluta militarmente. In quell'istante nella vasta piazza, così popolata di gente, regna il più profondo silenzio. Allora la bandiera si abbassa e il Re appende la medaglia d'oro al nodo della fascia di velluto cremisi con una fettuccia di seta celeste... Quando la bandiera si rialzò maestosa, scoppiò un applauso formidabile che rintronò per le volte della grandiosa Basilica".
L'episodio, ritratto in un dipinto commissionato al pittore Domenico Petterlin dallo stesso Re Vittorio Emanuele II, rappresenta il Re nell'atto di decorare di Medaglia d'Oro al Valore Militare la bandiera del Comune di Vicenza e riassume nella sua motivazione tutta la forza e il sacrificio di una Città in uno dei momenti più alti e più gloriosi della sua pur millenaria storia: "Per la strenua difesa fatta dai cittadini contro l'irruente nemico del maggio e giugno 1848".
Mauro Passarin (Dir. Museo)

INDICE:
Cronache
Federazione di Vicenza
Un po' di storia - Lo scontro di Sorio
20-21 Maggio - Primo assalto
23-24 Maggio - Battaglia notturna
L'assalto definitivo alla città: il 10 Giugno
Difficili trattative
Considerazioni conclusive
Storie e memorie di una città